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L'esperto risponde
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DOMANDA
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RISPOSTA DI
RICCARDO BOLOGNESI
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La mia società a totale partecipazione pubblica locale per una mail da me inviata dall'indirizzo di posta elettronica aziendale in uso, ad altro collega contenente alcune riflessioni critiche di natura personale i e private su decisioni assunte dalla società in contrasto a norma di legge, questo collega malgrado non fosse da me autorizzato ha divulgato (inopinatamente e subdolamente) la mia mail al management aziendale che mi hanno contestato il venir meno del vincolo fiduciario per essermi abbandonato ad alcune censure (pur io censurando fatti veri e reali con qualche frase ironica).
Le chiedo se una mail indirizzata ad un "amico" con toni e termini confidenziali di natura personale e privata poteva essere divulgata dal collega - senza mia espressa autorizzazione - in aderenza a quanto disciplinato dal Garante della Privacy con deliberazione n. 13 dell'1 marzo 2007, che al punto 5.2, letttera d) si esprime con assoluta chiarezza sull'argomento.
E' da dire che la mia società non ha mai regolamentato all'interno l'uso e l'utilizzo delle caselle di posta elettronica date in uso ai dipendenti.
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Il caso sottoposto alla mia attenzione pone un concreto problema di composizione del contrasto che può sorgere tra distinti interessi ed opposte esigenze.
Da un lato, quella di tutelare il diritto di segretezza e di non divulgare notizie riservate.
Dall’altro, il diritto del datore di lavoro al rispetto, da parte del lavoratore, dei doveri di fedeltà e alla tutela dell’immagine della Società, certamente lesa dalla divulgazione (sebbene non autorizzata) di opinioni che, quantunque personali, siano idonee ad incidere negativamente sull’immagine della Società medesima.
A mio avviso tale conflitto di opposti interessi deve essere risolto, nel caso specifico, a favore del lavoratore, che, a causa di un utilizzo non autorizzato e, pertanto, non consentito, di un’e mail contenente considerazioni personali e confidenziali sull’operato del personale della società, indirizzata ad un collega nella consapevolezza che tali opinioni e considerazioni rimanessero nella sfera giuridica del destinatario, non ha in alcun modo voluto realizzare un’illecita lesione all’immagine della società o dei suoi vertici.
A questo proposito soccorre la deliberazione del 1 marzo 2007, n. 13 del Garante per la protezione dei dati personali, che ha fornito alcune precisazioni indirizzate specificamente ad assicurare la funzionalità ed il corretto impiego della corrispondenza attraverso e mail da parte dei lavoratori, sottolineando la necessità di rispettare la libertà e la dignità dei lavoratori medesimi.
In particolare, all’art. 5.2, lettera B) della predetta deliberazione, viene chiaramente affermato che il contenuto dei messaggi di posta elettronica - come pure i dati esteriori delle comunicazioni ed i file allegati - riguardano forme di corrispondenza assistite da garanzie di segretezza tutelate anche costituzionalmente, la cui ratio risiede nel proteggere il nucleo essenziale della dignità umana e il pieno sviluppo della personalità nelle formazioni sociali.
Un’ulteriore protezione deriva dalle norme penali a tutela dell’inviolabilità dei segreti (artt. 2 e 15 Cost.; Corte Cost. 17 luglio 1998, n. 281, art. 616, quarto comma, c.p.; art. 49 codice dell’amministrazione digitale).
Pertanto, ferma restando la responsabilità, civile e penale per la divulgazione non consentita, in quanto non autorizzata, di un’e mail il cui contenuto è sicuramente assistito da garanzia di segretezza, potrà rispondere alla contestazione (nei termini di legge, ossia nel termine che deve necessariamente essere indicato, a pena di inefficacia, nella lettera di constestazione) e giustificare la sua condotta contestando che sia stato violato il vincolo fiduciario (trattandosi di opinioni rientranti nel diritto di critica riconosciuto dall’art. 1 Statuto dei lavoratori e dall’art. 8 dello Statuto che pone il divieto di indagini sulle opinioni) e l’assenza di volontà nella divulgazione, si ribadisce, non autorizzata, di opinioni contenute in un’e mail diretta, in via esclusiva e riservata, ad un collega (e, pertanto, l’assenza di una volontà diffamatoria, lesiva dell’immagine della Società).
Riguardo poi alla circostanza secondo cui la società non ha mai regolamentato l'uso e l'utilizzo delle caselle di posta elettronica, anche tale aspetto si presta a motivo di censura.
La citata deliberazione n. 13 del 1 marzo 2009 a proposito delle caselle e mail ha espressamente previsto che il datore di lavoro deve: specificare se l’utilizzo della casella e- mail è concesso solo per uso lavorativo, ovvero anche per uso personale; mettere a disposizione di ciascun lavoratore apposite funzionalità di sistema che consentano, in caso di assenza, di individuare altri soggetti o modalità di contatto con la struttura; individuare le improrogabili necessità legate all’attività lavorativa che consentono di conoscere il contenuto dei messaggi.
Anche sotto tale profilo il lavoratore ha concreti ed effettivi motivi di doglianza da far valere avverso le contestazioni mosse dal suo datore di lavoro.
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Egregio Avvocato,
vorrei sapere se, secondo te, la disciplina prevista dal D.L. n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008, che prevede, in caso di contratto a termine dichiarato illegittimo a seguito di domanda giudiziaria, il pagamento da parte del datore di lavoro di un’indennità compresa tra 2.5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in luogo della conversione in un rapporto a tempo indeterminato, si applichi estensivamente a tutte le ipotesi di contratti a termine dichiarati illegittimi.
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Caro Collega,
sono necessarie alcune considerazioni preliminari, ricavabili dalla lettura della normativa citata.
Per cominciare, la tutela indennitaria, prevista dall’art. 21 D.L. n. 112/2008, convertito in L. 133/2008, in luogo della conversione del contratto a termine dichiarato illegittimo in un contratto a tempo indeterminato, è stata espressamente limitata dalla normativa in esame, sia pur tra molte perplessità, ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore del decreto legge, ossia ai giudizi in essere alla data del 22 agosto 2008, con esclusione, pertanto, dell’applicabilità alle fattispecie trattate in giudizi già definiti con sentenza passata in giudicato e, stando alla lettera della legge, alle controversie instaurate successivamente al 22 agosto 2008.
Tanto premesso, è opportuno specificare come la normativa in esame non si applichi a tutte le ipotesi di contratti a termine illegittimi, ma, per espressa volontà del legislatore, è stata limitata alle sole ipotesi di contratti stipulati in violazione degli articoli 1, 2 e 4 del Dlgs n. 368/2001.
Quanto si viene affermando trova puntuale conferma in una recente sentenza della Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. lav., n. 26935/2008) che ha avuto modo di osservare come la normativa di cui alla L. 133/2008 non possa trovare applicazione al di fuori delle ipotesi di violazione degli articoli 1,2,4 del D.Lgs 368/2001, ossia per violazione di altre norme (tipica ipotesi: accordi collettivi).
La Corte di Cassazione, nella citata sentenza, ha precisato che: “la nuova previsione è espressamente riferita solo alle ipotesi di violazione degli articoli 1, 2 e 4 del Dlgs n. 368/2001 nel quale è inserita e, per la sua evidente natura eccezionale, non può essere interpretata estensivamente né può essere applicata al di fuori dei casi contemplati”.
In tale ultima ipotesi, così come nelle ipotesi di contratti a termine stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo (si ribadisce, 22 agosto 2008), pertanto, resta ferma la tutela prevista antecedentemente all’entrata in vigore della normativa in esame. Alla possibilità di invocare la declaratoria di nullità o inefficacia della clausola del termine apposta al contratto impugnato farà seguito, pertanto, la conversione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato, con efficacia dalla data di decorrenza del contratto medesimo, che si intenderà stipulato ab origine come contratto a tempo indeterminato, con conseguente obbligo del datore di lavoro di ripristino del rapporto di lavoro e di pagare le retribuzioni omesse, dalla data di scadenza del contratto all’effettiva riammissione in servizio.
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Gentile Avvocato,
sono un lavoratore dipendente di un’impresa edilizia.
Ho intenzione di stipulare un contratto di cessione del quinto dello stipendio e vorrei acquisire alcune informazioni giuridiche sull’istituto. A questo proposito, vorrei chiederle: il datore di lavoro a cui viene notificato il contratto di cessione del quinto può rifiutare la cessione? Come avviene il pagamento delle rate di finanziamento? In caso di cessazione del rapporto di lavoro cosa accade?
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Gentile utente,
il contratto di cessione del quinto dello stipendio è una forma di prestito personale disciplinata dalla norma dell'articolo 1260 del codice civile, che attribuisce a chi è titolare di un credito la facoltà di cederlo a terzi, a titolo oneroso o gratuito, e regolata dal d.p.r. n.180/1950.
Una caratteristica molto importante di tale forma di finanziamento è l'assoluta trasparenza dell'operazione dato che i contratti sono pubblici, registrati e notificati.
Il richiedente, in cambio del finanziamento da parte della Società erogante che, a norma del D.P.R. 180/50, deve essere “l'istituto nazionale delle assicurazioni, le società di assicurazione legalmente esercenti, gli istituti e le società esercenti il credito escluse quelle costituite in nome collettivo e in accomandita semplice, le casse di risparmio ed i monti di credito su pegno”, cede una parte del suo stipendio o della sua pensione (al massimo un quinto) autorizzando il datore di lavoro a trattenere ogni mese dalla busta paga o dalla pensione la rata da pagare.
Il datore di lavoro, cui viene notificato il contratto, è obbligato ad accettare la richiesta di cessione del quinto da parte di un dipendente.
La particolarità di questa operazione di finanziamento è che il rimborso avviene con trattenuta della rata direttamente in busta paga.
In buona sostanza sarà il datore di lavoro a pagare la rata alla Banca o all’Istituto finanziatore, trattenendo l'importo dalla busta paga del dipendente.
La rata di finanziamento viene determinata entro una soglia massima pari al quinto dello stipendio percepito dal debitore ceduto e tale importo resta fisso durante l'intero piano di ammortamento, non essendo prevista la possibilità di variare l’importo della rata per tutta la durata del finanziamento.
Il datore di lavoro del debitore ceduto, per effetto del contratto di cessione del quinto notificatogli, è tenuto:
1) a trattenere la rata indicata nel contratto dalla busta paga del dipendente e a versarla alla Banca erogante il prestito. Questo obbligo persiste per tutta la durata del piano di ammortamento ma solo fintanto che il rapporto di lavoro è in essere. Il datore di lavoro, peraltro, non è responsabile del corretto pagamento del prestito erogato al dipendente ma viene semplicemente incaricato del pagamento della rata;
2) in caso di cessazione del rapporto di lavoro dovrà trattenere ogni somma maturata dal dipendente presso l'azienda e versare tale somma alla Banca erogante. Questa la utilizzerà per estinguere, totalmente o parzialmente, il debito residuo.
Il contratto è garantito attraverso la stipulazione, obbligatoria ai sensi del D.P.R. 180/50, di una polizza assicurativa sulla vita e sui rischi di perdita del lavoro.
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Gentile Avvocato,
sono un lavoratore dipendente di una società che si occupa di vendita e fornitura di accessori e ricambi per autovetture. Vorrei avere informazioni in merito alla comunicazione e certificazione della malattia. In particolare vorrei sapere se la comunicazione della malattia al datore di lavoro, avvenuta tre giorni dopo l’inizio della malattia, attraverso l’invio a mezzo fax del certificato medico, anticipato dalla comunicazione telefonica avvenuta il giorno stesso dell’inizio della malattia, sia idoneo giustificare l’assenza. Vorrei, inoltre, sapere se per l’attestazione della malattia è necessario un modulo particolare (certificato rosso dell’INPS) o sia sufficiente l’attestazione redatta su carta intestata del medico curante.
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Gentile utente,
ai sensi della normativa vigente, in particolare dell’art. 2 D.L. 663/79, convertito in L. n. 33/80 e dell’art. 1 comma 149 della L. 311/2004, il lavoratore è tenuto a comunicare e giustificare l’assenza per malattia attraverso l’invio della certificazione sanitaria rilasciata dal medico curante. Quest’ultima va trasmessa al datore di lavoro e, quando sussiste il diritto all’indennità economica previdenziale, all’INPS.
A tal proposito si osserva, tuttavia, che l’art. 10 Circolare Inps 6 settembre 2006, n. 95 bis, ha stabilito che l’onere dell’invio della certificazione all’INPS permane anche in relazione alle malattie di durata inferiore a quattro giorni (per le quali, come è noto, non è dovuto il trattamento previdenziale), tenuto conto anche dei riflessi che possono porsi nell’eventualità di successive ricadute.
Si rammenta che l’indennità economica di malattia a carico dell’INPS viene erogata a partire dal quarto giorno di malattia.
La documentazione medica attestante l’assenza dal lavoro per malattia è costituita dall’attestato di malattia, utile al datore di lavoro in quanto contiene solo l’indicazione della prognosi (ossia data di inizio e quella finale presunta della malattia) e dal certificato di diagnosi, che contiene, oltre alla data iniziale e finale di malattia, anche la causa della malattia stessa. Il certificato di diagnosi deve essere inviato solo all’INPS.
Sono validi, ai fini dell’erogazione dell’indennità, i certificati rilasciati anche su modelli non conformi alla modulistica predisposta dall’INPS, dagli ospedali o dalle strutture di pronto soccorso, purché il medico dell’INPS possa valutare l’incapacità al lavoro e sempre che la certificazione abbia tutti i requisiti di legge (indicazione del nominativo del lavoratore, diagnosi e prognosi, intestazione, data di rilascio, timbro e firma del medico, domicilio del lavoratore).
Riguardo ai tempi e ai modi di trasmissione della documentazione attestante lo stato di malattia, il lavoratore è tenuto a recapitare o a trasmettere al datore di lavoro (con raccomandata con ricevuta di ritorno) la certificazione rilasciata dal medico curante, entro due giorni dal relativo rilascio.
Spetta, invece, al medico curante trasmettere all’INPS il certificato di diagnosi della malattia.
Per l’individuazione del termine di due giorni dal rilascio della certificazione della malattia, vale la regola generale per il computo dei termini, secondo cui il giorno stesso del rilascio non deve essere computato e, se il termine di scadenza viene a scadere in un giorno festivo, la scadenza è prorogata al primo giorno seguente non festivo.
In merito, poi, alle modalità di comunicazione al datore di lavoro dello stato di malattia, la comunicazione deve avvenire, si ribadisce, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno.
La trasmissione della certificazione medica tramite fax può essere considerata valida ai soli fini del rispetto del termine di invio per consentire l’effettuazione di visite di controllo, fermo restando che per la concessione dell’indennità a carico dell’INPS e del suo anticipo da parte del datore di lavoro, occorre che l’invio del certificato medico in originale pervenga in tempo utile.
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