15.06.09. Le cause di tutti i nostri guai sono l’indifferenza al bene comune, il non coltivare il senso di appartenenza ed infine l’ignoranza di tutto ciò che ci riguarda (e se ne avrebbe tanto bisogno, a cominciare dal sistema dei compensi professionali, per i quali tanto mi impegno sia con conferenze, sia con l’assistenza ai Colleghi in difficoltà nel redigere le note specifiche, sia con l’assistenza addirittura in giudizio, costituendomi per i Colleghi contro clienti ingrati, i quali dunque “si meritano” perciò di aver a che fare con la mia lunghissima esperienza in materia, maturata in un quarto di secolo al servizio, febbrile e appassionato, dei Colleghi nel Consiglio dell’Ordine forense romano).
Per contrastare la diffusa ignoranza sui temi che ci riguardano, credo che si debba iniziare con l’interessare i più giovani Colleghi alle nostre (alle loro) sorti, non delegando il futuro a personaggi che, talvolta modesti, si propongono insistentemente per occupare e colonizzare in gran parte le nostre istituzioni di autogoverno, spesso non avendone una indispensabile, altissima statura intellettuale, culturale, morale e professionale.
Dunque invoco un “Largo ai Giovani” e sono pronto ad aiutarli a farsi strada anche nelle nostre istituzioni, alla sola condizione che si dimostrino all’altezza, a cominciare dalla conoscenza del nostro ordinamento professionale.
Per approvvigionarsi del necessario sapere mi permetto di indicare anzitutto la lettura dell’articolo che segue, dalla penna di un grande Collega, di Verona, Dario Donella, facondo e fecondo autore di saggi sul nostro mondo ordinistico e previdenziale.
Vi unirete a me nella gratitudine per quello che tale eminente Collega - in nome del senso di appartenenza - ci dona del suo sapere dei fatti nostri.
Poiché l’articolo era destinato ad essere pubblicato sulla rivista della Cassa di Previdenza e Assistenza Forense, ringraziamo l’Autore e La Previdenza Forense che ci hanno consentito l’anticipata pubblicazione.
Federico Bucci
L’accesso alla Avvocatura tra storia e attualità
Presentazione
In questa relazione, viene fatta una storia dell’avvocatura moderna in Italia, quanto mai sintetica, rivolta soprattutto ai colleghi stranieri e ai giovani che non ne conoscono le vicende.
Vengono poi indicati alcuni temi variamente dibattuti, che hanno interessato gli avvocati italiani, o che possono tuttora interessare tutti i partecipanti al convegno.
L’accesso alla nascita dell’ordine forense
La storia moderna dell’avvocatura inizia nel 1874.
E’ in quell’anno che viene approvata la legge 8 giugno 1974, n. 1938, accompagnata dal Regolamento approvato il 26 luglio 1884, n. 2012.
Con queste leggi, è nato l’ordine forense. A dire il vero, nelle leggi non si parlava ancora di “ordini”, ma di “collegi”.
Due erano i collegi: quello degli avvocati e quello dei procuratori.
La distinzione tra queste due professioni corrispondeva ad una tradizionale differenza di funzioni: il procuratore era il rappresentante della parte in giudizio, mentre l’avvocato era il difensore al quale spettava il compito di illustrare gli argomenti di fatto e di diritto a sostegno delle istanze del cliente.
Con la legge del 1874, fu prescritta l’iscrizione ad un albo per l’esercizio della professione.
Fu tenuto distinto l’accesso alle due professioni ciascuna con il suo albo. Per entrambe le professioni, era prevista una pratica biennale da svolgere presso un avvocato o presso un procuratore. Le modalità della pratica erano eguali e consistevano quasi esclusivamente nella frequenza dello studio di un professionista e nella assistenza alle udienze giudiziarie.
Per la iscrizione negli albi, era poi previsto, per entrambe le professioni, un distinto esame, organizzato tuttavia in modo quasi identico.
Gli esami si svolgevano presso ciascuna Corte d’Appello due volte all’anno e, grazie al limitato numero dei partecipanti, il risultato si conosceva in pochi giorni.
Gli esami si svolgevano nei vari distretti; essi consistevano in una prova scritta ed una prova orale.
I temi della prova scritta erano tre ed erano dettati dalle commissioni.
La prova orale verteva su quesiti relativi ai principi generali di diritto ed alle norme dei codici, applicati ai fatti proposti dagli esaminatori.
La legge stabiliva che l’esercizio della professione di avvocato per due anni consentisse la iscrizione nell’albo dei procuratori. Non era prevista una iscrizione nell’albo degli avvocati per i procuratori, se non attraverso lo specifico e diverso esame.
Non ci sono notizie precise circa il fatto che i due distinti esami siano stati indetti per tutto il tempo in cui è rimasta in vigore la legge del 1874.
La possibilità per gli avvocati di iscriversi all’albo dei procuratori, dopo un biennio di esercizio professionale, fa supporre che, da un certo momento in poi, siano stati indetti solo gli esami di avvocato: chi mai avrebbe voluto sostenere un secondo diverso esame, se uno era sufficiente per l’iscrizione in entrambi gli albi?
Le riforme del 1926 e del 1932
Questo sistema di accesso alla professione è rimasto sostanzialmente immutato fino alla riforma approvata nel 1926, con legge 23 marzo 1926, n. 453, con il relativo regolamento approvato con R.D. 26 agosto 1926, n. 1683.
Fu mantenuto il sistema degli albi e la separazione delle due professioni.
Le modifiche delle caratteristiche dell’accesso per le due professioni sono state innovative e rilevanti.
La professione di avvocato e quella di procuratore sono state mantenute distinte con le stesse funzioni del passato, anche se, col tempo, la distinzione aveva perso rilievo (salvo che in Piemonte e in Liguria dove è stata più a lungo conservata la tradizione).
Per la professione di procuratore, vennero introdotte delle limitazioni territoriali (il distretto di Corte d’Appello) e venne prescritto l’esame di Stato unico in tutta Italia, con facoltà del Ministro di Grazia e Giustizia di fissare un numero determinato di posti per ogni distretto. L’esame doveva svolgersi nelle sedi delle Corti d’Appello.
Rimase l’obbligo della pratica per due anni con caratteristiche analoghe a quelle del passato.
Per compiere la pratica, era (come ora) necessaria l’iscrizione all’apposito registro, che non attribuisce una qualificazione professionale, poiché la pratica ne è soltanto preparatoria.
L’albo degli avvocati non aveva alcuna limitazione numerica e per l’accesso era previsto un autonomo esame, che si svolgeva nell’unica sede in Roma.
Per la prima volta, per l’iscrizione all’albo, fu prescritta la condotta specchiatissima ed illibata sotto ogni rapporto.
La legge del 1926 fu poi modificata con r.d.l. 27 novembre 1933, n. 578, con il regolamento approvato con R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, che sono tuttora per la maggior parte in vigore, pur essendo state approvate successivamente molte modifiche.
Con la legge del 1934, l’ordinamento della professione forense venne adeguato al sistema corporativo per il quale gli ordini vennero sostituiti con i sindacati fascisti.
Questa trasformazione non ebbe però rilievo per le modalità di accesso alle professioni.
La innovazione principale, per quanto riguarda l’accesso, fu che, per l’iscrizione all’albo degli avvocati, era necessario aver prima acquisito il titolo di procuratore.
Per l’iscrizione nell’albo degli avvocati, era prescritto l’esercizio lodevole della professione di procuratore per almeno sei anni.
In alternativa, era stato anche previsto un esame, che poteva essere sostenuto due anni dopo l’iscrizione all’albo dei procuratori, nella unica sede in Roma.
L’iscrizione per anzianità ha fatto sì che il numero dei partecipanti all’esame di avvocato sia stato sempre molto limitato anche per la sua severità (quattro prove scritte ed una prova orale su tutte le materie).
Il periodo di pratica di procuratore fu mantenuto in due anni, ma un anno poteva essere sostituito dalla frequenza di corsi speciali, istituiti presso università. Questi corsi vennero costituiti in poche università ed ebbero poco successo.
Al praticante procuratore era concesso il patrocinio per quattro anni limitato alle giurisdizioni minori del distretto della Corte d’Appello in cui egli era iscritto. Era previsto che l’esercizio del patrocinio potesse sostituire la normale pratica per l’intero biennio. Non si hanno notizie circa la utilizzazione di questa disposizione. Essa è stata tacitamente abrogata con la riforma del tirocinio negli anni 1985/1990.
L’abilitazione al patrocinio, dopo l’ultima riforma, può essere chiesta dopo un anno di tirocinio e dura sei anni, da quando può essere richiesta.
Il praticante abilitato, a differenza del praticante senza abilitazione, è soggetto alle regole delle incompatibilità proprie dell’avvocato.
Con il decreto luogotenenziale 23 novembre 1944, n. 382 (questo è stato il modo di legiferare alla fine della guerra fino alla ricostituzione degli organi parlamentari), furono introdotte importanti innovazioni. Era stata “sospesa” la norma circa la limitazione numerica per l’iscrizione all’albo dei procuratori, mentre la pratica era stata ridotta ad un anno. Per l’iscrizione all’albo dei procuratori, venne mantenuto l’obbligo dell’esame di Stato, confermato poi da norma costituzionale (art. 33, comma 5).
Si può ritenere che la norma costituzionale, che ha prescritto l’esame per l’accesso alla professione di procuratore, in sostituzione del concorso con limitazioni numeriche, abbia avuto un effetto abrogativo della norma sulla limitazione numerica, mentre era opinione diffusa che la limitazione numerica fosse stata soltanto “sospesa”.
Questo sistema è rimasto pressoché immutato fino alla approvazione delle leggi che hanno innovato in merito alla pratica e all’esame (legge 24 luglio 1985, n. 406; legge 27 giugno 1988, n. 242; legge 20 aprile 1989, n. 142; DPR 10 aprile 1990, n. 101).
La durata della pratica è stata riportata a due anni.
Le modalità di svolgimento della pratica sono state disciplinate con il regolamento contenuto nel DPR 101/1990.
E’ stato mantenuto l’obbligo della frequenza di uno studio di procuratore, sono stati previsti corsi post-universitari e “scuole di specializzazione”, non obbligatori e perciò finora di successo molto limitato. L’innovazione più interessante è stata l’obbligatorietà del diario della pratica nel quale devono essere annotate tutte le attività compiute, con l’attestazione del procuratore, che ha accolto il praticante nel suo studio.
E’ stato rafforzato l’obbligo dei consigli dell’ordine di vigilare sull’effettivo svolgimento del tirocinio.
Per poter sostenere l’esame di procuratore (ora di avvocato), è tuttora necessario: frequentare uno studio di procuratore, che può essere sostituito in parte dalla frequenza dei corsi post-universitari. E’ inoltre prevista la frequenza (non obbligatoria) ai corsi di formazione professionale o scuole forensi.
E’ dubbio se la pratica possa essere svolta anche all’estero.
Interessante innovazione, per quanto riguarda l’esame, è stata l’obbligo di sostenerlo presso la Corte d’Appello nell’ambito della quale era stato svolto il tirocinio. Inoltre è stata consentita la consultazione di raccolte di giurisprudenza, prima vietate.
Era stato prescritto che l’iscrizione all’albo, dopo il superamento dell’esame, potesse essere fatta soltanto nell’ambito del distretto, dove l’esame era stato sostenuto, ma poi questa norma è stata dichiarata incostituzionale.
Era anche prevista la possibilità di iscrizioni di diritto prevalentemente per doventi universitari e per magistrati dopo un certo numero di anni di esercizio delle funzioni. Questa disposizione si può ritenere abrogata dalla Costituzione (art. 3, comma 5), così come può ritenersi incostituzionale la norma della legge 24 febbraio 1997 n. 27, che l’ha confermata.
La professione di procuratore è stata soppressa nel 1997 ed i procuratori sono confluiti nell’unica professione di avvocato.
Le prospettive di riforma ora all’esame del Parlamento
E’ ora all’esame del Parlamento la riforma della professione di avvocato, che necessariamente coinvolge in modo rilevante anche l’accesso alla professione.
Il grande numero di nuovi iscritti agli albi di avvocato induce molti a chiedere regole restrittive per l’accesso.
Non si può però ritenere giustificata una restrizione del numero di nuovi iscritti soltanto per una ragione numerica, anche se il numero eccessivo di iscritti negli albi forensi è motivo di preoccupazione.
Si deve ritenere che l’accesso debba essere selezionato soltanto in ragione delle capacità professionali dimostrate da chi aspira ad accedere alla professione.
E’ opinione diffusa che l’elevatissimo numero di nuovi iscritti abbia avuto effetti negativi anche sul livello della loro capacità professionale.
Il contenimento del numero degli iscritti dovrebbe essere però il naturale effetto di una selezione basata sulla qualità dei candidati.
Questo significa che bisogna senz’altro accrescere gli strumenti di miglioramento della preparazione, nella quale dovrebbe essere molto qualificante la frequentazione di corsi formativi.
Non si può certo rinunciare all’efficacia selettiva dell’esame, ma l’effetto selettivo per gli avvocati dovrebbe conseguire ad alcune apposite disposizioni:
- stabilire che le prove, scritte e orali, mirino a dimostrare la cultura giuridica del candidato e, soprattutto, la capacità di utilizzare le nozioni teoriche nell’esercizio professionale;
- individuare un sistema di eguale trattamento di tutti i candidati nelle varie sedi distrettuali, così da evitare che vi siano sedi nelle quali la facilità dell’esame consenta l’accesso anche a giovani impreparati;
- più importante però è prescrivere, in modo efficace, l’esercizio effettivo della professione, perché solo questo esercizio può dare garanzia che, attraverso di esso, l’iscritto non solo conservi, ma migliori le sue capacità, che già dovrebbero essere state valutate con l’esame.
E’ giusto e doveroso attribuire notevole rilievo ai corsi di formazione, anche se la loro organizzazione presenta ovvie difficoltà: nelle grandi sedi, per l’elevato numero dei frequentatori; e, nelle piccole, per difficoltà di trovare docenti qualificati.
Si dovrebbe attribuire un notevole rilievo alla frequenza ai corsi. Va verificata la opportunità della loro obbligatorietà, che può determinare degli inconvenienti; prima di tutto, la estrema difficoltà di organizzare corsi in tutti i circondari italiani, anche se forse è possibile ottenere questo risultato costituendo raggruppamenti tra quelli minori. Occorre evitare che la frequenza dei corsi comporti oneri economici sopportabili solo da coloro che appartengono a famiglie benestanti. Non va poi dimenticato che, se la frequenza ai corsi comportasse lunghi spostamenti, non solo essa renderebbe la frequenza economicamente onerosa, ma potrebbe sottrarre troppo tempo alle altre forme di tirocinio, tra le quali dovrebbe conservare funzione prevalente la frequenza di uno studio professionale.
Si possono qui ricordare alcuni principi enunciati dal Calamandrei nel lontano 1923 e ricordati dal Cappelletti:
1) bisognerebbe riconoscere il diritto del praticante a svolgere la pratica e l’obbligo legale dei professionisti esercenti di impartire il necessario insegnamento;
2) dovrebbe essere riconosciuto il diritto del praticante alla retribuzione;
3) potrebbe essere opportuno prevedere un periodo di pratica presso gli uffici giudiziari.
Non v’è dubbio che la riforma dell’accesso costituisce la scommessa più importante della riforma della professione.
Le due professioni: avvocato e procuratore
Per molto tempo, si è discusso circa la possibilità di mantenere separata la professione di procuratore (rappresentante della parte in giudizio) da quella di avvocato (difensore che illustra le questioni di fatto e di diritto).
Dopo l’approvazione della legge del 1934, l’accesso ad entrambe le professioni era divenuto comune con la necessità di diventare prima procuratori per poter diventare poi avvocati.
L’accesso alla professione di avvocato per i procuratori non aveva bisogno né di altro esame né di alcuna specifica preparazione, perché era sufficiente il “lodevole” esercizio per sei anni della professione di procuratore.
Con la separazione effettiva delle due professioni, vi sarebbe stata la necessità che la parte fosse assistita in ogni giudizio da due difensori.
Poiché era necessaria la presenza in giudizio del procuratore, ma solo facoltativa quella dell’avvocato, è stato naturale che il procuratore abbia allargato i suoi compiti nel giudizio assolvendo anche quelli che sarebbero stati propri del difensore.
La possibilità di iscrizione in entrambi gli albi, e soprattutto l’accesso alla professione di avvocato limitato a chi avesse ottenuto il titolo di procuratore ed esercitato questa professione, ha reso inutile la distinzione; infatti, il procuratore poteva svolgere la funzione di illustrare le difese, mentre l’avvocato poteva ben rappresentare il cliente, per la possibilità di essere iscritto dopo qualche anno in entrambi gli albi.
Appariva ingiustificata la limitazione territoriale dell’esercizio dell’attività di procuratore, con la conseguenza che, al di fuori del distretto, l’avvocato civilista, anche se avvocato, aveva bisogno della collaborazione di un procuratore iscritto nel distretto nel quale doveva svolgere attività difensiva.
La nullità degli atti compiuti dal procuratore (o dell’avvocato che fosse anche procuratore) al di fuori del distretto appariva un’anomalia certamente ingiustificata.
La legge, che ha abolito la professione di procuratore (24 febbraio 1997 n. 27), ha perciò convalidato una evoluzione già avvenuta nel modo di esercizio della professione, con l’effetto principale di eliminare ogni limitazione territoriale alla rappresentanza processuale. Questa limitazione poteva essere ritenuta anche ingiustificata sulla base delle norme costituzionali.
L’accesso all’avvocatura è ora unico, perché unica è la professione.
Albi chiusi, albi aperti, albi selezionati
L’albo dei procuratori è rimasto “chiuso”, cioè con limitazione del numero delle iscrizioni ammesse, dal 1926 al 1944.
Sono state interminabili, e durano tuttora, le discussioni tra avvocati se questa chiusura sia opportuna, o se piuttosto debba ritenersi preferibile la mancanza di ogni limite numerico agli iscritti agli albi forensi.
Il motivo della richiesta di chiusura consiste nel fatto che il numero degli iscritti agli albi forensi aumenta costantemente con riflessi negativi sulla capacità professionale media, sulla correttezza deontologica, sulle possibilità di remunerazione.
Le opposte tendenze sostenitrici del mantenimento dell’apertura degli albi si fondano prevalentemente sul principio della libertà di ogni attività economica, che deve essere riconosciuta anche all’esercizio professionale, ed inoltre alla necessità che questo si svolga secondo le regole della concorrenza.
Dal punto di vista normativo, si dovrebbe prendere atto che vi sono per lo meno due gravissimi ostacoli alla possibilità di reintrodurre la limitazione numerica dell’iscrizione agli albi forensi.
Il primo, e più importante, è che la apertura dagli albi è imposta da regole della Comunità Europea. Ogni tentativo di imporre limitazioni numeriche verrebbe frustrato dall’intervento delle autorità europee.
Il secondo motivo, altrettanto importante ma accidentale perché rimovibile, è la norma costituzionale che impone la obbligatorietà dell’esame di Stato per accedere ad una professione.
Occorrerebbe pertanto una modifica della Costituzione, che è del tutto impensabile. Non si raggiungerebbe infatti in Parlamento la necessaria maggioranza perché la decisione verrebbe influenzata dalla necessità del rispetto delle norme europee.
Le lamentele del numero eccessivo degli avvocati erano vivaci già nel 1921, quando se ne rese interprete Piero Calamandrei con un celebre libretto.
Quest’anno abbiamo superato il livello dei duecentomila iscritti: esattamente 198.041 al 31 dicembre 2008. Il limite dei duecentomila dovrebbe essere stato superato nei primi mesi di quest’anno.
Si noti che questo numero indica gli iscritti agli albi, mentre si ha motivo di ritenere che sia inferiore il numero di chi esercita effettivamente la professione.
Ne dovrebbe essere prova il numero notevolmente inferiore degli iscritti alla Cassa forense. Occorre infatti tener presente che l’iscrizione alla Cassa richiede l’esercizio continuativo della professione, che è provato con le dichiarazioni fiscali che devono superare certi limiti, dimostrativi di un esercizio professionale effettivo.
Tra coloro che non sono iscritti alla Cassa, deve ritenersi prevalente il numero di chi non esercita affatto la professione e che perciò affolla ingiustificatamente i nostri albi.
La uguaglianza dei requisiti per essere iscritti all’albo e per essere iscritti alla Cassa, richiesta da più parti e da molto tempo, consentirebbe un apprezzabile sfoltimento degli albi, con opportuna efficacia selettiva.
L’enorme numero degli iscritti agli albi, conseguente alle nuove iscrizioni avvenute in questi ultimi anni, è dimostrativo del fatto che la domanda di servizi legali nel mercato è aumentata notevolmente così da giustificare l’aumento degli esercenti la professione forense.
Secondo molti, sarebbe importante trovare strumenti selettivi per consentire l’esercizio professionale solo a coloro che possano dare garanzia ai clienti di eseguire prestazioni qualificate e corrette. Un avvocato che non esercita, ma che può esercitare, costituisce un pericolo per i clienti e per la giustizia.
Un esame di Stato selettivo può essere importante; ma più importante sarebbe individuare i mezzi per ottenere una selezione qualitativa anche durante lo svolgimento della attività professionale, quando cioè si può verificare l’effettiva capacità dell’avvocato di esercitare la professione in modo competente e corretto.
L’imposizione dell’esercizio effettivo può molto contribuire ad ottenere questo risultato.
Preparazione congiunta per avvocati e magistrati?
Si è spesso discusso se sia opportuno prevedere un sistema unico od uniforme per l’accesso alla professione di avvocato ed alla magistratura.
L’argomento fu uno dei temi della conferenza nazionale della giustizia di Bologna nel 1986.
In questo campo, ben poco è stato fatto in Italia, contrariamente a quanto avvenuto in Francia, in Germania ed in altri paesi europei. In Francia, si è a lungo privilegiata (seppure con non pochi ripensamenti) una formazione separata; in Germania, si è invece privilegiata la formazione comune di magistrati ed avvocati.
In Italia, la proposta di una preparazione comune trova molteplici ostilità sia tra gli avvocati, sia tra i magistrati.
Esperienze comuni soprattutto all’inizio dell’attività professionale potrebbero essere utili; ma molti mettono in rilievo la grande diversità che c’è tra l’attività dell’avvocato e l’attività del magistrato, perché altro è difendere, altro è giudicare.
Difendere è più difficile che giudicare e comporta maggiori responsabilità.
Il giudice si trova di fronte a problemi impostati ed elaborati dagli avvocati: egli è chiamato a scegliere la soluzione corretta.
L’avvocato si trova di fronte a situazioni di fatto spesso complesse, che deve inquadrare correttamente ed esporre chiaramente, con approfondite ricerche e con verifiche della validità delle scelte compiute.
Tutto ciò comporta che la preparazione a difendere deve avere contenuti del tutto specifici, che inducono a ritenere la frequenza dello studio dell’avvocato strumento indispensabile per imparare le tecniche difensive.
Non c’è dubbio, però, che i principi della cultura giuridica sono comuni ad entrambe le professioni e perciò potrebbero essere utili molte iniziative congiunte, anche se non costituenti il mezzo unico per l’accesso alle due professioni.
L’evoluzione in atto per la professione di avvocato contribuisce ad accentuare la differenza di preparazione richiesta per l’avvocato rispetto a quello richiesta per il magistrato.
La unitarietà, almeno parziale, del tirocinio per futuri giudici e futuri avvocati, sembra essere consigliata da ragioni formative e morali, come ad esempio quella dei buoni rapporti tra i giudici e gli avvocati, rapporti certamente facilitati da una originaria comunanza di preparazione professionale.
L’albo speciale per il patrocinio avanti le magistrature superiori
Merita attenzione particolare l’accesso all’albo speciale per il patrocinio avanti le magistrature superiori.
Secondo la legge vigente, l’iscrizione all’albo speciale può avvenire in più modi:
a) con l’esercizio della professione di avvocato per dodici anni;
b) con un esame, che può essere sostenuto dopo cinque anni di l’iscrizione all’albo di avvocato;
c) di diritto.
Per conseguire la iscrizione all’albo speciale per anzianità è prescritta la pratica presso un avvocato che esercita abitualmente avanti le magistrature superiori. Trattasi però di prescrizione del tutto inosservata.
L’esame è sempre stato molto selettivo, anche se facoltativo, e ben pochi lo hanno sostenuto e superato. Ciò perché il superamento dell’esame richiede voti molto alti: la media di otto decimi tra tutte le tre prove scritte e la prova orale e un voto non inferiore a sette in ciascuna prova, con l’effetto che i candidati sono stati sempre pochissimi, mentre le bocciature sono sempre state molto numerose.
La possibilità di accedere all’albo speciale con il semplice esercizio della professione di avvocato per un numero determinato di anni, come accade ora, ha inflazionato il nostro albo speciale, che adesso ha molto più di trentamila iscritti, destinati a crescere notevolmente con l’arrivo delle nuove generazioni molto più numerose delle vecchie.
In Francia, il numero di avvocati abilitati al patrocinio avanti le magistrature superiori è molto limitato e il possesso di questo titolo conferisce un grande prestigio.
In Italia, il titolo contraddistingue solo gli avvocati non più giovanissimi.
Da tempo, si richiedono innovazioni, che consentano di limitare il numero degli iscritti all’albo speciale.
Il sistema più logico potrebbe essere imporre come obbligatorio l’esame, eventualmente con una severità di votazione meno rigorosa di quella attuale.
Se si volesse escludere la necessità dell’esame, bisognerebbe prescrivere corsi di preparazione particolarmente rigorosi e selettivi da affiancare all’anzianità dell’esercizio professionale.
La principale difficoltà dell’esame attuale è che raramente un avvocato è padrone di tutte le discipline oggetto delle tre prove scritte (civile e procedura civile, penale e procedura penale, amministrativo). E ciò soprattutto per il fatto che c’è una crescente tendenza alla specializzazione.
La necessità dell’esame per accedere all’albo speciale è perciò contrastata da chi svolge una attività specialistica, soprattutto i penalisti.
Si deve, però, anche considerare che chi patrocina in Cassazione dovrebbe essere padrone di tutte le materie giuridiche per la loro frequente interconnessione.
Pertanto, l’accesso all’albo speciale dovrebbe essere riservato a professionisti che abbiano un’ottima preparazione in ogni settore del diritto.
Ed è preferibile che ciò venga accertato con un esame selettivo.
I corsi di formazione dovrebbero mirare soprattutto a colmare le lacune conseguenti ad un esercizio professionale specialistico.
Solo così il titolo potrebbe attribuire prestigio all’avvocato che lo ha conseguito e offrire garanzia di competenza a chi si affida a lui.
Le iscrizioni di diritto
L’iscrizione di diritto è sempre stata prevista dalle leggi professionali prevalentemente per docenti universitari e per magistrati.
Nelle proposte di riforma dell’ordinamento professionale, le iscrizioni di diritto non sono più ammesse.
Già ora si può ritenere che le norme sulle iscrizioni di diritto siano state implicitamente abrogate dalla Costituzione, nella quale l’iscrizione all’albo professionale è condizionata al superamento dell’esame di Stato. Mentre appare incostituzionale la legge 24 febbraio 1997 n. 27, laddove mantiene ferme le norme (incostituzionali) che regolano le iscrizioni di diritto.
Ma le domande di iscrizioni di diritto continuano ad essere accolte.
Per aggirare l’evidente ostacolo della necessità dell’esame di Stato, per chi non supera l’esame di avvocato, è stato sostenuto che è sufficiente un esame “equipollente” rispetto a quello di avvocato.
Solo il Consiglio dell’Ordine di Verona ha negato l’iscrizione ad un magistrato con ampia motivazione. Secondo il Consiglio di Verona, la norma che consente l’iscrizione di diritto è stata abrogata dalla Costituzione, che ha prescritto l’esame di Stato per l’iscrizione all’albo; e non possono essere ammissibili esami “equipollenti”.
Una prima osservazione circa l’esame “equipollente”, è che questa caratteristica potrebbe (teoricamente e con molti dubbi) esserci per l’esame di magistrato, non certo per le altre categorie (ad esempio, giudici onorari o ex prefetti).
Un elemento trascurato, ai fini del giudizio di equipollenza, è che l’esame di avvocato deve essere preceduto dal tirocinio, che caratterizza la preparazione verso l’esercizio professionale; tirocinio ora regolato con particolare specificità e con molto maggior rigore per garantire una buona preparazione.
Ma, soprattutto, vi è una norma, inspiegabilmente ignorata, che esclude la possibilità di equiparare l’esame di magistrato all’esame di avvocato. E’ l’art. 18, comma 2 della legge professionale vigente, secondo il quale lo svolgimento per due anni della funzione di magistrato è equivalente alla pratica professionale.
L’esercizio delle funzioni di magistrato, pertanto, consente di partecipare all’esame di avvocato senza aver fatto la pratica professionale.
E’ però evidente che, se l’esercizio delle funzioni può sostituire la pratica, vuol dire che l’esame di magistrato, già sostenuto, non può essere “equipollente” all’esame di avvocato.
E, senza esame di Stato, non si può esercitare una professione regolamentata per norma costituzionale.
E’ bensì vero che l’iscrizione di diritto può essere chiesta dopo un ben maggior numero di anni di esercizio della funzione, ma giustamente è stato osservato che, ai fini dell’iscrizione di diritto, l’esercizio di funzioni non può in alcun modo considerarsi sostitutivo o equivalente ad un esame.
Gli “abogados”
Altra questione dibattuta in merito all’accesso all’albo di avvocato si ha per gli “abogados”, cioè per coloro che ottengono l’iscrizione ad un albo forense in Spagna e che poi si trasferiscono in Italia.
Per l’iscrizione all’albo in Spagna è sufficiente la laurea in giurisprudenza, non essendo prescritto l’esame di Stato.
Per il laureato italiano, è stato ritenuto sufficiente ottenere la conferma spagnola della laurea in giurisprudenza italiana per ottenere l’iscrizione nell’albo spagnolo degli “abogados”.
Ottenuta l’iscrizione spagnola, questi laureati chiedono l’iscrizione in un elenco italiano degli avvocati stabiliti, con il titolo di abogado. E’ quindi possibile, dopo 3 anni di iscrizione a questo elenco, l’acquisto del titolo di avvocato e la integrazione nell’albo ordinario.
La illegittimità della utilizzazione in Italia del titolo professionale spagnolo, non seguito dal prescritto esercizio professionale, è stata affermata dalla Corte Europea a proposito della iscrizione di un ingegnere italiano che aveva bensì ottenuto in Spagna la conferma del suo diploma, ma che non aveva esercitato la professione in Spagna prima di chiedere il trasferimento.
Giustamente, l’Unione Triveneta degli Ordini Forensi, con una interessante mozione ha segnalato la illegittimità di questo espediente poiché è requisito essenziale per la utilizzazione del titolo professionale spagnolo in Italia che l’abogado abbia esercitato in Spagna la professione per almeno due anni.
Secondo L’Unione Triveneta va dunque opposto un rifiuto di iscrizione all’abogado, che non sia in grado di dimostrare in modo idoneo e veritiero il compimento del prescritto esercizio professionale in Spagna.
La illegittimità della iscrizione comporta la cancellazione dall’albo, dovuta nei confronti di chi l’abbia ottenuta senza averne titolo.
Non c’è dubbio che, in tal caso, la cancellazione è legittima e obbligatoria
Il fenomeno è comunque destinato ad esaurirsi, perché anche la Spagna su pressione di altri Stati Europei, ha istituito un esame di Stato in particolare per la professione forense.
La donna avvocato
Al giorno d’oggi, sembra impossibile che le prime donne si siano potute iscrivere in Italia all’albo degli avvocati solo dopo il 1919, quando furono abrogate le norme che limitavano alle donne l’esercizio di alcuni diritti civili con la legge 17 luglio 19189, n. 1776.
In precedenza, vi erano stati alcuni tentativi di donne che avrebbero voluto esercitare l’avvocatura, ma che furono ostacolate dai consigli dei collegi degli avvocati e procuratori e ancor più dalla Magistratura.
Il caso più noto è di Lidia Poët di Pinerolo, che ottenne l’iscrizione all’albo degli avvocati di Torino nel 1881.
Il procuratore generale di Torino impugnò la delibera di iscrizione alla Corte d’Appello, compente in forza della legge del 1874.
Con motivazioni, che oggi appaiono ridicole, assurde e disonorevoli per chi le ha scritte, la Corte d’Appello annullò la delibera di iscrizione e la Corte di Cassazione di Torino confermò questa sentenza.
La motivazione “giuridica” faceva riferimento al fatto che le donne non godevano di diritti politici e solo in parte di quelli civili e che erano soggette all’istituto della autorizzazione maritale, che sottoponeva vari atti commerciali e di gestione patrimoniale al consenso del coniuge.
Il nucleo principale delle motivazioni delle sentenze, che hanno deciso sull’argomento, era però relativo alla presunta inferiorità della donna e alla mancanza in lei di caratteristiche psicologiche e culturali idonee ad esercitare la professione di avvocato.
Vi fu chi sostenne che era consentita alla donna laureata in giurisprudenza e che avesse superato l’esame di avvocato l’attività di consulente, ma non quella di patrocinante. Quest’ultima avrebbe richiesto dall’avvocato la veste di pubblico ufficiale, che non poteva essere assunta dalle donne.
Lunga e senza successi fu la serie di iniziative di donne che cercarono di ottenere l’iscrizione all’albo. Tra costoro, va ricordata anche Teresa Labriola, la quale fu iscritta all’albo degli avvocati di Roma nel 1912 dal Consiglio che le riconobbe la possibilità di esercitare la pubblica funzione di avvocato, perché già esercente la pubblica funzione di docente universitario, la quale consentiva l’iscrizione di diritto all’albo. Ma Corte d’Appello di Roma e la Cassazione le negarono il diritto di iscrizione all’albo.
Le vicende delle donne che cercarono di poter esercitare la professione di avvocato sono state recentemente ricordate in un articolo di Francesca Tacchi.
L’autrice riferisce che, nel 1921, le donne italiane le quali esercitavano l’avvocatura erano già 85 ed aumentarono successivamente, ma con molta lentezza, fino agli anni successivi alla seconda guerra mondiale.
Mentre era già apprezzabile il numero delle donne avvocato, solo nel 1963 fu riconosciuta alle donne anche la facoltà di accedere a tutti gli uffici pubblici e a tutte le professioni, compresa quella di magistrato.
L’autrice conclude affermando che ora appare corretto parlare di una “tendenza alla femminilizzazione della professione forense”.
Infatti, negli ultimi anni, il numero delle donne entrate negli albi forensi è stato addirittura maggiore di quello degli uomini e la perdurante prevalenza numerica di costoro negli albi è dovuta soltanto al fatto che l’ingresso della donna in avvocatura è recente.
Da tempo, è maggiore il numero delle donne che fanno la pratica di avvocato e di quelle che sostengono l’esame e vengono promosse.
Chissà che faccia farebbero i magistrati delle Corti d’Appello e della Cassazione, i quali negarono alle donne l’accesso all’avvocatura a cavallo dell’800 e del ’900, se frequentassero ora i corridori di un tribunale traboccanti di donne avvocato!!
Dario Donella