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Il difensore e le intercettazioni Riduci
Roma, 16 gennaio 2006. Le recenti vicende relative ai tentativi di scalata a due tra i maggiori istituti di credito del nostro Paese, hanno ricondotto alla ribalta delle cronache, dell’interesse della classe politica e, più in generale, dell’opinione pubblica la questione relativa all’utilizzo, nell’ambito delle indagini giudiziarie, degli strumenti di captazione delle comunicazioni.
In particolare, come è noto, l’attenzione dei media e degli schieramenti politici si è concentrata sull’uso e sull’abuso, in termini sia endo che extraprocessuali, delle c.d. intercettazioni telefoniche e ambientali.
Non avendo la presunzione di trattare ed esaurire in questa sede un tema così delicato e complesso, premetto innanzitutto che il taglio di questo lavoro, come preannunciato nel titolo, sarà eminentemente rivolto agli aspetti critici della disciplina codicistica, con particolare riguardo, da un lato, ai progetti di riforma già approntati ed attualmente in discussione in Parlamento e, dall’altro, agli indirizzi giurisprudenziali consolidatisi negli ormai quindici anni di prassi giudiziaria di legittimità e di merito.
Da ultimo, cercherò di porre l’accento su alcune (e solo su alcune) questioni particolarmente critiche che, come noto, sono richiamate già nel titolo dell’intervento. Si tratta, in particolare, delle intercettazioni di conversazioni con il difensore e della disciplina delle c.d. intercettazioni preventive, cioè di quelle intercettazioni che si svolgono al di fuori del procedimento penale.
Da ultimo, a conclusione di questa breve premessa, tengo a precisare che questo intervento, in linea con quanto appena detto, sarà articolato, almeno nella prima parte, proprio seguendo quale filo conduttore il testo dei progetti di riforma. Attraverso un esame dei passi salienti di questi ultimi, ritengo sia possibile, peraltro, soffermarsi sulle questioni più delicate e dibattute, sia alla luce della attuale disciplina codicistica che delle più note sentenze – pilota della Cassazione.
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Nel nostro Paese il fenomeno delle intercettazioni è particolarmente critico in termini quantitativi. Nello scorso anno, infatti, la spesa sopportata dal Ministero della Giustizia per le intercettazioni disposte dalle varie Procure ammontava a quasi 400 milioni di euro. Enorme dunque. Anche il trend relativo al numero di utenze intercettate è andato vieppiù crescendo. Per limitarci solo agli ultimi anni: 32.000 nel 2001, 45.000 nel 2002, quasi 78.000 nel 2003, circa 93.000 nel 2004. Nel 2005, secondo stime ancora necessariamente provvisorie, si è superato il record delle 110.000. Attraverso uno studio incrociato su tali dati, che tiene conto del tempo medio della durata delle intercettazioni e del numero di chiamate, si ricava che ogni anno vengono sottoposti a controlli più di 1 milione e mezzo di cittadini.
Insomma, dati alla mano, in Italia un apparecchio telefonico su 500 è in questo momento sotto controllo legale, mentre diventa difficile stabilire il numero delle utenze indirettamente o illegalmente sotto controllo.
I dati sono dell’Eurispes. Sempre secondo l’Eurispes, per finire, negli ultimi dieci anni, in Italia, sarebbero state intercettate circa 30 milioni di persone.
Si tratta, com’è immediatamente percepibile da chiunque, di numeri palesemente abnormi, soprattutto se confrontati con quelli di altri paesi europei ed occidentali.
Tanto per limitarci ad un solo, emblematico esempio: l’uso delle intercettazioni telefoniche è 700 volte superiore, in termini percentuali, a quello realizzato negli Stati Uniti da parte dei diversi organismi giudiziari.
Non c’è riscontro in nessun Paese europeo (e, almeno per motivi tecnologici, in nessun altro Paese al mondo, da quelli asiatici a quelli africani) di altre nazioni nelle quali il potere giudiziario utilizzi in maniera così estesa l’intercettazione telefonica ai fini del controllo sociale.
Ciò che allora stupisce è che solo a seguito delle già richiamate vicende, il legislatore sembri finalmente essersi reso conto della necessità di procedere ad una riforma. Stupisce perché tutto ciò avviene, come di prassi, sulla spinta di fatti contingenti ed assume già solo per questo se non i connotati ed i contenuti quanto meno lo spirito di una legislazione “emergenziale”.
Il 29 settembre 2005, quindi, il Governo ha presentato un disegno di legge (nr. 3612) che si propone di rivisitare globalmente la materia delle intercettazioni telefoniche e ambientali, interpolando o addirittura sostituendo per intero gli artt. 266, 267 e 268, 269 c.p.p., oltre che gli artt. 36, 53, 114, 115, nonché prevedendo l’aggiunta dell’art. 268 bis c.p.p..
Nella relazione introduttiva al d.d.l. vengono richiamati i motivi ispiratori del progetto. In particolare si fa riferimento a 4 diversi fini:
a)     rendere più rigoroso il divieto di pubblicazione degli atti relativi alle intercettazioni, assicurandone un uso esclusivamente endoprocessuale e sanzionando in modo severo, nell’ambito delle indagini preliminari, la diffusione dei dati raccolti;
b)    rendere più rigoroso sia l’obbligo di vaglio dei presupposti che quello motivazionale nell’ambito dei provvedimenti del pubblico ministero e del giudice per le indagini preliminari, sia con riferimento alle intercettazioni telefoniche che a quelle c.d. ambientali;
c)     rendere più trasparente l’azione investigativa, garantendo un uso delle informazioni ottenute attraverso le intercettazioni che sia limitato esclusivamente alle conversazioni rilevanti ai fini del procedimento;
d)    rendere edotto l’interessato non indagato dell’avvenuta intercettazione nei suoi confronti, anche laddove il procedimento si concluda con un’archiviazione.
Accanto al testo governativo, ve n’è anche uno presentato quasi contestualmente e parallelamente da un autorevole esponente dell’opposizione, l’on. Pisapia, che, come vedremo, ancorché solo per alcuni aspetti, presenta caratteri di contiguità con quello del governo.
La conclusione che se ne può trarre, prima facie, è dunque che, se non in questa stessa legislatura, che a breve vedrà spirare il termine ultimo dei lavori delle camere, quanto meno nella prossima – ed è auspicabile già nei primi mesi – qualunque sarà lo schieramento vincente si porrà mano alla disciplina delle intercettazioni.
Mi è parso pertanto di grande interesse analizzare le ipotesi di riforma, che sicuramente costituiranno delle solide basi di lavoro per il prossimo parlamento.
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L’intercettazione di persona non sottoposta ad indagini
Ciò che balza subito agli occhi, analizzando il disegno di legge governativo, è una generale diversificazione della disciplina a seconda che si tratti di intercettare soggetti sottoposti ad indagini o meno. Resistiamo, sul punto, alla tentazione di dare per scontato che tutti sappiano che può essere sottoposto alle intercettazioni anche chi non sia indagato. Ciò che forse costituisce bagaglio elementare dell’avvocato penalista, infatti, può non esserlo per tutti gli altri, anche colleghi.
È questo uno dei momenti critici della disciplina in questione, il quale, per ripetere le parole del progetto di istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta “fa avvertire che esso è direttamente collegato al rischio di una possibile alterazione dei rapporti tra lo Stato, le sue strutture e i cittadini, con grave danno, non tanto e non solo per la privacy, ma per gli stessi diritti costituzionali”.
Dal punto di vista giuridico, l’ammissibilità delle captazioni nei confronti di soggetti terzi rispetto ai fatti d’indagine, deriva attualmente dalla formulazione dell’art. 267 c.p.p.
Perché il p.m. possa chiedere al g.i.p. di autorizzare le intercettazioni, infatti, egli deve allegare la sussistenza di “gravi indizi di reato”, che è nozione certamente diversa da quella di gravi indizi di colpevolezza (richiesti ad esempio per l’applicazione delle misure cautelari). I gravi indizi si devono cioè appuntare sul fatto oggetto dell’indagine, non sulla persona dell’intercettando.
Del resto, molto spesso le intercettazioni vengono disposte in procedimenti che si trovano, allo stato, iscritti contro ignoti. Basti pensare al caso di un omicidio: spesso parenti ed amici, nell’immediatezza dei fatti, vengono sottoposti ad intercettazioni nella speranza che qualcuno di loro, comunicando con altri, indichi delle piste investigative. O ancora, si pensi al caso emblematico del sequestro di persona, laddove vengano poste sotto controllo le utenze dei familiari in attesa di un contatto dai rapitori.
Nell’attuale disciplina, le intercettazioni dei soggetti indagati e quelle di colui che si trovi solo per avventura coinvolto a qualunque titolo nel contesto di un crimine (un crimine di cui sussistano “gravi indizi”) si fondano sui medesimi presupposti ed hanno le stesse limitazioni.
La proposta del governo, invece, è nel senso di costituire un’ulteriore “doppio binario” rispetto a quello già esistente (occorre infatti ricordare che, mentre per i procedimenti ordinari le intercettazioni sono disposte solo se ritenute assolutamente indispensabili, in quelli di mafia o criminalità organizzata sono disposte anche se appaiono solo meramente “necessarie”; si può dire, tuttavia, che, nei fatti e nella prassi, la distinzione tra indispensabilità e necessarietà, operata nella fase delle indagini preliminari, risulta molto nebulosa – lo ha osservato molto acutamente anche Cordero, secondo cui le due locuzioni significano poco o nulla).
Si prevede, infatti, che, di norma, le intercettazioni possano essere disposte solo nei confronti della persona sottoposta ad indagini, e solo nel caso in cui a suo carico sussistano gravi indizi di colpevolezza (che per i delitti di terrorismo o criminalità organizzata diventano sufficienti indizi).
E’ questa, quindi, la principale novità prevista dal ddl, il quale prescrive la possibilità che le intercettazioni possano essere disposte anche nei confronti di soggetti non indagati limitatamente ai casi in cui si proceda:
-         per i delitti di cui agli art. 51 co. 3 bis e 3 quater c.p.p. (cioè delitti associativi finalizzati alla riduzione in schiavitù, al traffico di sostanze stupefacenti, ovvero di associazione mafiosa o di sequestro di persona a scopo di estorsione, ovvero delitti con finalità di terrorismo);
-         per i delitti di cui all’art. 407 co. 2 lett. a): e quindi, in ordine sparso, alcuni gravi delitti contro la personalità dello stato, associazioni di tipo mafioso, omicidio, rapina aggravata, estorsione aggravata, sequestro a scopo di estorsione, delitti in materia di armi da guerra o esplosivi, delitti in materia di sostanze stupefacenti di cui all’aggravante dell’art. 80 t.u.;
-         per delitti di pedopornografia o detenzione di materiale pedopornografico;
-         delitti di minaccia, ingiuria, molestie commessi col mezzo del telefono.
In tutti gli altri casi, le intercettazioni, come detto, sarebbero consentite solo nei confronti degli indagati a cui carico sussistano gravi indizi di colpevolezza.
Rimarrebbero, pertanto, fuori dai casi in cui è consentita la captazione dei non indagati:
-         tutti i delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è possibile procedere ad intercettazioni (peculato, corruzione, concussione ecc.);
-         i delitti in materia di sostanze stupefacenti, sia con riferimento al primo che il v co. dell’art. I. 73;
-         altri importanti e gravi delitti (es. usura, riciclaggio).
Questo il quadro del progetto. Se certamente è meritorio, sul piano teorico, l’intento di limitare alle ipotesi più gravi la possibilità che chiunque possa essere intercettato, non si può non rilevare la discrasia (casuale?) con cui si vieterebbe l’ascolto dei non indagati, tanto per fare un esempio, nei casi di pur gravissimi reati di tipo economico, amministrativo o finanziario.
Sempre sul punto, i progetti di riforma si concentrano sulle garanzie dirette di tutela dell’interessato non indagato nell’ambito del procedimento penale. La cosa che infatti potrà suonare forse più strana a chi non è avvezzo alla materia è che oggi l’interessato – non indagato non ha alcuna possibilità diretta di intervenire per conoscere il contenuto delle conversazioni che lo riguardano.
Il ddl citato, quindi, prevede l’inserimento di un nuovo articolo, il 268bis c.p.p., mediante il quale si obbliga il p.m. ad avvisare le persone non indagate (nemmeno in procedimenti connessi) con raccomandata in piego chiuso con ricevuta di ritorno dell’avvenuto deposito degli atti relativi alle intercettazioni “che li riguardano”, a meno che non si proceda in ordine a reati particolarmente gravi, e cioè a dire quelli che in linea generale, come abbiamo visto, consentono l’intercettazione anche dei soggetti non indagati.
Ciò deve avvenire non appena le stesse siano depositate presso la segreteria del p.m.. il che vale a dire, ordinariamente, alla conclusione delle indagini preliminari, perché, per un’altra imponderabile stortura del sistema, quasi sempre il p.m. viene autorizzato dal g.i.p. a ritardare fino a quel momento il deposito che, invece, di regola, dovrebbe avvenire entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni.
Analogamente, si è proposto che la notizia dell’avvenuta intercettazione sia comunicata ai medesimi soggetti qualora il p.m., anziché decidere di esercitare l’azione penale, richieda l’archiviazione del procedimento.
Ma soffermiamoci per un istante sulla nozione di “persona non indagata sottoposta ad intercettazione”. Un dubbio: ci si riferisce solo a coloro che, pur non indagati, siano stati intercettati direttamente ed autonomamente (vale a dire sulle proprie utenze) o anche a coloro che siano stati intercettati perché casualmente in comunicazione con altri soggetti? Se, come sembrerebbe dal testo, ci si riferisce solo ai primi, allora non si comprende perché la proposta escluda che questi debbano essere avvisati nei casi in cui si proceda per i delitti di cui all’art. 407 co. 2 lett. a), visto che questi reati sono pressoché gli unici, in definitiva, che consentirebbero di intercettare il non indagato.
Se, viceversa, ci si riferisce a tutti gli intercettati, anche a chi lo sia stato indirettamente e casualmente (vedi il caso Fassino, la cui utenza, già in quanto parlamentare, non si sarebbe peraltro potuta sottoporre alle intercettazioni), ciò comporterebbe un lavoro enorme per gli uffici delle procure, quasi un procedimento nel procedimento. Poiché ciascuna utenza viene intercettata per diverse settimane, spesso mesi, e poiché nell’ambito della stessa indagine sono talvolta decine le utenze sottoposte a controllo, ciò significherebbe che le persone da avvisare sarebbero ogni volta centinaia; il che, moltiplicato per il numero di utenze annualmente sottoposte a controllo, determinerebbe un’invasione di plichi in tutte le case d’Italia!
La soluzione più congeniale, invece - ci permettiamo sommessamente di suggerire - sarebbe probabilmente quella di avvisare solo i soggetti direttamente coinvolti nelle captazioni; ciò senza limitazioni, e quindi anche con riferimento ai reati di criminalità organizzata e a tutti gli altri previsti dall’art. 407 co. 2 lett. a).
Del resto, non si vede quale sia la differenza in termini di privacy tra colui che, estraneo al contesto criminale quanto a responsabilità, sia stato sottoposto ad intercettazioni nell’ambito di un procedimento per reati gravissimi e chi, altrettanto estraneo, lo sia stato in ipotesi meno gravi.
Né la previsione in esame comporterebbe possibilità di inquinamento del quadro indiziario, attuandosi in un momento coevo o successivo alla conoscibilità dei contenuti delle intercettazione da parte degli stessi indagati.
Per quanto riguarda i diritti e le garanzie dell’interessato, l’avviso di cui stiamo parlando, in definitiva, dovrebbe consentire all’estraneo, oltre che di venire a conoscenza della propria sottoposizione al controllo, di richiedere ed accertare personalmente che i flussi che lo riguardano, e che siano irrilevanti per il procedimento, siano dichiarati tali e conseguentemente distrutti.
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Lo stralcio e le trascrizioni
Uno dei profili più interessanti è poi rappresentato dalle nuove previsioni in materia di stralcio delle conversazioni: oggi, di norma, il difensore conosce per esteso solo il contenuto delle conversazioni che, a monte, il p.m. (e prima di lui la p.g. delegata) ritiene più rilevanti per le indagini. Non perché il codice non gli consenta di acquisire tutto il materiale indiziario, ma perché, come sa chiunque abbia avuto a che fare con processi basati sulle intercettazioni, si tratta quasi sempre di una mole di materiale tale, che l’ascolto completo di tutte le intercettazioni (magari non limitato solo a quelle del proprio assistito) comporterebbe un dispendio insostenibile di tempo ed energie.
Tutte le altre sono versate nel fascicolo solo nei riassunti dei brogliacci predisposti dalla p.g., con il rischio di importanti “sviste”. Il problema si presenta, dunque, sotto un duplice profilo: quello dello stralcio delle intercettazioni inutilizzabili o manifestamente irrilevanti, e l’altro della trascrizione integrale di quelle ritenute invece rilevanti ai fini processuali.
Per quanto concerne lo stralcio, la normativa attuale, al sesto comma dell’art. 268 c.p.p., prevede che il giudice acquisisca le conversazioni o i flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicate dalle parti, che non appaiano manifestamente irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio, appunto, delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione. A tali operazioni, prescrive lo stesso articolo, hanno diritto di partecipare il pubblico ministero e i difensori, che sono avvisati almeno ventiquattrore prima.
In realtà, chiunque, come già detto, abbia un minimo di esperienza di processi con intercettazioni è perfettamente consapevole del fatto che lo stralcio, almeno nelle forme dianzi descritte, non viene quasi mai operato. Conseguentemente, al giudice dell’udienza preliminare giungono tutte le intercettazioni eseguite, e lo stralcio, anche in quella fase, diventa solo eventuale, in quanto ancorato alla esigenza di disporre la trascrizione integrale delle registrazioni già prima del dibattimento.
Orbene, la disciplina prospettata nel d.d.l. sembrerebbe proprio voler rimuovere l’invalsa prassi consolidata di non eseguire lo stralcio nella fase delle indagini preliminari, prevedendo espressamente la fissazione, da parte del giudice, di un’udienza in camera di consiglio finalizzata unicamente all’acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni telematiche o informatiche; il problema è che non appare chiaro se il giudice, all’esito di detta udienza, anche nell’ipotesi in cui essa non fosse partecipata, conservi l’obbligo di eseguire, comunque ed autonomamente, lo stralcio delle registrazioni irrilevanti od inutilizzabili.
In buona sostanza, la sola previsione di fissare un’udienza ad hoc potrebbe non risultare sufficiente ad evitare il riconsolidarsi della prassi oggi ampiamente invalsa.
Non si può, infatti, non rilevare come, a parte l’aggiunta, come detto, dell’udienza in camera di consiglio, il testo rimanga pressoché identico, nella formulazione, all’attuale disposto dell’art. 268 co. 6 c.p.p., già interpretato dalla giurisprudenza nel senso di un’assenza di obbligo da parte del giudice di disporre ex officio lo stralcio.
Ed allora una soluzione migliore sembrerebbe quella di rendere obbligatoria l’acquisizione motivata delle conversazioni rilevanti di cui non è vietata l’utilizzazione, a prescindere dall’impulso di p.m. e difensore e soprattutto in una sede diversa e precedente rispetto all’udienza preliminare.
E ciò, a ben vedere, renderebbe più agevole procedere alla trascrizione integrale delle registrazioni acquisite, che, a questo punto, sarebbe limitata alle conversazioni rilevanti, con evidenti vantaggi in termini di economia processuale.
Infatti, sempre in una prospettiva de iure condendo, non sarebbe peregrino poter prevedere l’obbligo per il giudice di disporre anchela trascrizione integrale delle intercettazioni già nella fase delle indagini preliminari, risolvendo così il secondo profilo di trattazione.
Una tale soluzione, a dire il vero, produrrebbe una serie di vantaggi sia per il giudice dell’udienza preliminare che per il difensore, il quale non si troverebbe più a dover operare scelte in alcuni casi decisive (il riferimento è ovviamente ai riti alternativi), senza conoscere il contenuto dettagliato delle intercettazioni. È qui necessario aprire una piccola parentesi: la normativa attuale, infatti, prevedendo che le trascrizioni disposte da un non meglio precisato “giudice” entrino a far parte del “fascicolo del dibattimento”, libera il g.i.p.- g.u.p. dall’obbligo di disporre la trascrizione integrale, sia che si celebri un rito alternativo, sia che l’udienza preliminare conservi la sua naturale funzione di filtro rispetto al dibattimento. In tal senso si è pronunciata anche la Cassazione, affermando che, “poiché la trascrizione delle intercettazioni non costituisce prova o fonte di prova ma solo un’operazione rappresentativa in forma grafica del contenuto di prove acquisite mediante la registrazione fonica, non è possibile subordinare la richiesta di definizione del processo con rito abbreviato all’esecuzione della trascrizione”.
In ultima sostanza l’unico rimedio, rimesso anche questo alla discrezionalità del giudice, resta quello di “patteggiare” la trascrizione di solo alcune conversazioni, al fine di poter accedere ad un rito alternativo.
La soluzione più sopra prospettata si pone peraltro parzialmente in linea con quella contenuta nella recente proposta di legge, avanzata come detto dall’on. Pisapia, che contiene però la peculiarità di prevedere una sorta di stralcio preventivo da parte del p.m., il quale trasmetterebbe al giudice le conversazioni dallo stesso ritenute rilevanti, conservando le altre in un apposito archivio consultabile sia dal giudice sia dal difensore.
Tale previsione è presto spiegata con una considerazione di carattere generale. Sarà per il contesto attuale, sarà per una naturale attenzione della classe politica (globalmente intesa, maggioranza ed opposizione) più ai suoi problemi che non a quelli del cittadino comune, i progetti si concentrano più sul problema della privacy che su quello delle garanzie. Non che non tocchino queste ultime. Ma l’attenzione dedicatagli è palesemente inferiore rispetto alla quantità di nuove regole a presidio della riservatezza delle comunicazioni irrilevanti.
È evidente, tuttavia, che detto ultimo e legittimo interesse è senza dubbio maggiore per persone di spessore pubblico (si tratti di politici, di imprenditori, manager ecc.), laddove stampa, televisione ed opinione pubblica sono spesso a caccia di scoop tratti da qualche conversazione captata in un’inchiesta nella quali, magari, tale notizia è del tutto ininfluente.
Al quisque de populo, al frequentatore occasionale (o anche, se volete, abituale) delle aule di giustizia non interessa poi moltissimo che dalle intercettazioni sfugga qualche notizia di troppo sulla propria vita privata.
Del resto, l’asimmetria dei due casi è lampante: nel primo, esiste il concreto rischio di una divulgazione quasi “pubblicitaria” delle comunicazioni eventualmente intercettate; nel secondo, al massimo, si tratta di renderne edotti un ufficiale di p.g., un p.m. ed un giudice (oltre che il proprio legale).
Non che la cosa non possa o debba suscitare qualche preoccupazione, ma l’esperienza quotidiana ci insegna che non era certo questa la garanzia fondamentale sulla cui salvaguardia intervenire.
Ma tant’è.
Ci saremmo aspettati invero che, a fianco del coacervo di norme poste in primo luogo a tutela della segretezza e riservatezza delle comunicazioni, il legislatore prospettasse una rimodellazione altrettanto pregnante della disciplina con riferimento alle garanzie difensive all’interno del processo, in considerazione del fatto che il sistema attuale, così come interpretato, appare assolutamente sbilanciato a favore di chi gestisce l’attività di intercettazione.
Il punto è, in conclusione, che purtroppo per quanto ci si possa sforzare a pensare ad una soluzione, si è e si rimarrà sempre rimessi, in ultima analisi, alla correttezza dell’operato degli inquirenti.
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La motivazione dei decreti
Un vero punto dolente nella materia di cui ci stiamo occupando è costituito dal come e dal quanto di motivazione necessaria a sostenere l’autorizzazione della captazione di ciascuno di noi e, correlativamente, dalla valutazione successiva sulla legittimità dei provvedimenti autorizzativi e quindi sull’utilizzabilità delle intercettazioni disposte in base a questi ultimi.
Come si sa, l’art. 267 c.p.p. richiede che il decreto autorizzativo sia adottato dal g.i.p., ovvero, nei casi d’urgenza, dal p.m. da sottoporre entro 24 ore al g.i.p. e da questi obbligatoriamente (pena l’inutilizzabilità dei risultati) convalidato entro le 48 ore successive.
La norma però parla genericamente di “decreto motivato”.
In argomento si sono registrate le più ampie oscillazioni giurisprudenziali. Si è andati da una fase di prima applicazione nella quale, come molti ricorderanno, alcune pronunce avevano persino ammesso la possibilità di motivazioni assolutamente apparenti (in un caso si era addirittura ritenuto legittimo il decreto motivato con “visto, si autorizza”) ad una, successiva, in cui la “sensibilità” della Suprema Corte e conseguentemente del giudice di merito in ordine alla parte motiva dei decreti è indubbiamente cresciuta.
Non ritengo sia questa la sede per richiamare analiticamente gli approdi della Cassazione sui requisiti della motivazione del decreto autorizzativo.
Vi è tuttavia una questione sulla quale ritengo importante soffermare per un attimo l’esposizione. Essa è quella relativa al c.d. “potere di emenda” da parte del giudice, sia esso di merito o della fase cautelare.
L’attuale interpretazione dell’art. 267 c.p.p., infatti, consente già in fase cautelare al Tribunale del Riesame di emendare legittimamente il vizio di motivazione. Unico limite che la giurisprudenza riconosce a tale potere, è laddove la motivazione del decreto autorizzativo manchi in senso fisico- testuale, ovvero sia meramente stereotipa, vale a dire meramente ripetitiva dei requisiti di legge.
In tutti gli altri casi, quindi, anche laddove sia palese che il g.i.p. ha autorizzato in base a valutazioni incongrue, insufficienti, inadeguate, già in fase cautelare, anziché procedere ad una valutazione circa l’inutilizzabilità e coerentemente annullare l’eventuale ordinanza de libertate, il Tribunale “purga”, per così dire, la motivazione e con essa la legittimità del decreto.
Anche su questo punto i progetti di riforma intervengono sensibilmente. L’espressione “decreto motivato”, che ha dato luogo all’interpretazione appena richiamata, verrebbe infatti sostituita con quella, più pregnante, “decreto motivato, contestuale e non successivamente modificabile o sostituibile”. Ciò proprio al fine di evitare la legittimazione postuma di quanto evidentemente ab origine sarebbe risultato viziato.
Sempre nella condivisibile ottica di una “responsabilizzazione” del p.m. e del g.i.p., si prevede che le intercettazioni possano essere disposte non soltanto laddove appaiano assolutamente indispensabili (cosa che già è oggi prevista, salvi i casi del “doppio binario” e salvo l’abuso sistematico invalso nella prassi di tale requisito), ma che sussistano, inoltre, specifiche ed inderogabili esigenze investigative, “fondate su elementi espressamente ed analiticamente indicati nel provvedimento, non limitati ai soli contenuti di conversazioni intercettate nel medesimo procedimento”.
Ciò determinerebbe due conseguenze: la prima è che l’obbligo di motivazione censurabile verrebbe esteso anche alle ragioni della completezza e dell’adeguatezza logica dell’impianto motivazionale.
La seconda, forse ancora più importante, è il divieto (da cui non può che scaturire l’inutilizzabilità) delle intercettazioni disposte sulla sola base motiva di altre intercettazioni. Così come è formulata, con riferimento cioè, alle intercettazioni disposte “nel medesimo procedimento”, la norma sembra inoltre far riferimento sia ai decreti genetici che a quelli di proroga. Essa si imporrebbe come novità di assoluto rilievo, dacché determinerebbe un esplicito onere investigativo di rinvenire aliunde, per continuare a poter disporre dello strumento captativo, la prova della sua necessità e della fondatezza dell’ipotesi investigativa, senza “addormentarsi” sul solo strumento captativo.
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Qualificazione giuridica
Altro punto centrale circa l’utilizzabilità del materiale captativo, consiste nella previsione, contenuta nel d.d.l., che essa sia limitata ai soli casi nei quali, nel corso del procedimento o del processo, la qualificazione giuridica dei delitti per i quali le intercettazioni siano state originariamente disposte non muti, degradando ad ipotesi per le quali le intercettazioni non sarebbero state consentite.
L’attuale disciplina, non prevedendo alcun tipo di sanzioni in ipotesi come questa, consente invece di utilizzare i contenuti delle conversazioni acquisite al procedimento anche nel caso in cui, in seguito ad un esame più approfondito dei fatti di causa, si escludano, per esempio, ipotesi associative inizialmente ventilate ovvero nel caso, non infrequente, in cui reati molto gravi degradino poi ad ipotesi nettamente più lievi (si pensi, a mero titolo d’esempio alla possibilità che le intercettazioni vengano utilizzate per condannare un imputato per violenza privata o ragion fattasi, così riqualificando l’originaria ipotesi di estorsione che aveva dato luogo alle operazioni).
Si eviterebbe, inoltre, l’introduzione artificiosa e surrettizia di ipotesi accusatorie assai labili, fatta al solo fine di poter utilizzare le intercettazioni.
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Passiamo ora ad analizzare, seppure brevemente, due aspetti richiamati nel titolo della presente relazione, che ritengo nello stesso tempo importanti ed interessanti :le intercettazioni che coinvolgono il difensore e le intercettazioni c.d. preventive.
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Intercettazioni con il difensore
Partiamo dal primo aspetto. Spiace notare come i progetti di riforma non affrontino un argomento ahimè essenziale della disciplina de qua, quale per l’appunto quello delle garanzie del difensore, delle quali ci eravamo proposti di trattare, sia pure, com’è inevitabile, senza alcuna pretesa di esaustività o anche solo di organicità.
La materia è attualmente regolata dagli artt. 103 V co. e 271 II co. c.p.p. ed appare non pienamente soddisfacente in molti connotati essenziali.
Se è vero, da un lato, che l’intercettazione tra il difensore ed il proprio assistito “non è consentita” a norma dell’art. 103 v co. c.p.p. è pur vero che, secondo la corrente interpretazione giurisprudenziale del disposto, nulla esclude l’esecuzione e persino la trascrizione sui brogliacci delle telefonate (o delle ambientali) intercorse tra difensore ed assistito. In altri termini l’inutilizzabilità non è automatica, ma consegue alla verifica: a) dell’esistenza del rapporto professionale – e non meramente personale – tra l’avvocato e l’indagato; b) della estraneità del difensore al contesto criminoso oggetto delle captazioni.
Quanto al primo profilo, prevale - per fortuna - la tesi che il rapporto professionale non sia necessariamente legato al conferimento di una nomina ai sensi dell’art. 96 c.p.p. ritualmente versata in atti. Si ritiene invece che l’esistenza di un rapporto fiduciario possa desumersi dal contenuto stesso delle intercettazioni ovvero altrove, per esempio dalla documentazione prodotta dall’interessato.
Quanto al secondo aspetto, invece, si esclude recisamente che la garanzia in oggetto sia afferente anche a quelle conversazioni che integrino esse stesse profili di responsabilità penale. Sono pertanto pienamente utilizzabili quelle intercettazioni dalle quali si evinca un’ipotesi di favoreggiamento o peggio di concorso nella commissione di un reato da parte del difensore.
Dai limiti brevemente richiamati in tema di inutilizzabilità delle captazioni tra cliente ed avvocato ne consegue per logica che la p.g. procedente non ha alcun preciso dovere di procedere, sulla base di valutazioni autonome, allo stralcio di quanto eventualmente raccolto.
D’altro canto, l’unico reale “divieto probatorio” posto come tale in termini assoluti è quello relativo alla possibilità di sottoporre ad intercettazione direttamente il difensore per il fatto di essere tale (e quindi presumibilmente in possesso di notizie rilevanti per l’accusa), ma si tratta, com’è del tutto evidente, di una sfera di esclusione probatoria assai debole.
Come assai debole (e peraltro c’è voluta, a suo tempo, una pronuncia a Sezioni Unite per sopire l’invero assurda querelle) è la garanzia secondo cui il divieto di intercettazione (ma rectius dovremmo dire l’inutilizzabilità delle stesse) opera anche nel caso che l’attività difensiva captata concerna un procedimento diverso rispetto a quello nel quale l’intercettazione è stata disposta.
In altri termini non è comunque utilizzabile il contenuto della conversazione tra difensore e colui che è indagato in altro procedimento ovvero tra difensore e colui che, pur essendo indagato nel procedimento nell’ambito del quale l’intercettazione è stata disposta, sia indagato anche in altro procedimento, qualora il contenuto della conversazione verta su questo ultimo. Così come, analogamente, in ossequio ad un reale diritto di difesa, riteniamo debba considerarsi inutilizzabile l’intercettazione tra difensore e “indagabile” .
Per tutto il resto, il diritto di difesa non conosce nel nostro codice di procedura (o perlomeno nell’interpretazione che se ne da) un divieto assoluto di conoscenza ex ante da parte degli organi inquirenti ovvero del giudice, ma implica la richiamata verifica postuma del rispetto dei limiti normativi, la cui violazione comporta per l’appunto l’inutilizzabilità del contenuto delle intercettazioni.
Non è chi non veda come una soluzione di questo tipo, da tempo avallata dalla Cassazione, possa rivelarsi pericolosamente disequilibrata. Basti pensare a due assai rilevanti storture che l’attuale sistema permette.
In primo luogo, ci si riferisce alla possibilità (tutt’altro che remota) che l’ascolto o la cognizione da parte del p.m. del contenuto delle conversazioni tra imputato e difensore diventi lo spunto per venire a conoscenza di nuovi e magari decisivi elementi o di nuove “piste investigative”, che poi il p.m. potrà comodamente versare nel proprio fascicolo attraverso mille espedienti investigativi (perquisizioni, sequestri ecc.). Si dirà: male captum, bene retentum, anche qui con buona pace del segreto professionale e del diritto di difesa.
In secondo luogo, la (eventuale) mancata distruzione immediata da parte di un p.m. scorretto di tali intercettazioni pone il giudice dell’udienza preliminare nella condizione di conoscerne il contenuto, anche al solo fine di dichiararne l’inutilizzabilità e la distruzione, ma altresì comportando un inevitabile condizionamento psicologico di colui che è deputato a decidere delle sorti di un giudizio, magari nelle forme del giudizio abbreviato.
Ecco perché non suona del tutto convincente la bollatura, che spesso leggiamo negli obiter dicta della Suprema Corte, quando, nel dichiarare valido e pienamente legittimo l’iter della verifica postuma, definisce come “un ingiustificabile ambito di immunità assoluta o un privilegio di categoria” la proposta interpretativa più garantista, cioè quella di chi chiede che i colloqui col difensore debbano essere necessariamente ed immediatamente distrutti, ed anzi, che venga immediatamente sospesa l’operazione captativa laddove si sia in presenza di un colloquio di difesa.
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L’interpretazione delle conversazioni
Un tema di importanza cruciale nella prassi quotidiana del processo penale è quello che attiene all’interpretazione del contenuto delle conversazioni. Come sa chiunque abbia avuto a che fare con processi il cui quadro indiziario si regge principalmente sulle intercettazioni, infatti, quasi mai il contenuto delle conversazioni è chiaro, univoco, preciso.
L’esempio più lampante è costituito dai procedimenti in materia di droga o di criminalità organizzata, laddove gli indagati utilizzano ordinariamente un linguaggio criptico, un formulario gergale, realmente o apparentemente allusivo.
È soprattutto in casi del genere che si sconta l’inidoneità del mezzo captativo rispetto al fine processuale di accertamento (per quanto possibile) univoco della realtà.
Frequentissimo, in questi casi, è il ricorso, da parte del giudice, all’interpretazione secondo criteri di logica e d’esperienza, con risultati che tuttavia, altrettanto frequentemente, lasciano spazio a margini di incertezza, ad incongruenze e significati ulteriori.
Purtroppo, anche in questi casi (che, lo si ripete, nella prassi sono la quali totalità) la giurisprudenza di legittimità ha avallato la scellerata prassi di ritenere che gli indizi costituiti dal materiale captato non debbano necessariamente trovare un riscontro in altri elementi esterni.
Gravità, precisione e concordanza degli indizi, cioè, possono essere desunte anche solo ab interno e, se congruamente motivata, la sentenza di condanna che si fonda solo sui contenuti delle captazioni, si sottrae a qualsivoglia sindacato in sede di legittimità, come sempre avviene in tema di valutazione della prova e libero convincimento del giudice.
In alcune pronunce, da ultimo, la Cassazione ha stabilito che il motivo di censura può concernere unicamente la logica della chiave interpretativa. Quando cioè l’interpretazione non sia manifestamente irrazionale, pertanto, nessun motivo di doglianza può essere dedotto in sede di legittimità, ed è precluso alla Corte rivalutare la prevalenza di un significato piuttosto che di un altro.
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Le c.d. intercettazioni preventive
Altro tema troppo spesso relegato ai margini dell’interesse del penalista (e del giurista in genere) è quello delle c.d. intercettazioni preventive.
Molto spesso si sospetta che le nostre conversazioni o comunicazioni siano in un qualche modo intercettate e ascoltate da un grande orecchio che recepisce dati i quali poi vengono stipati in un’immaginaria banca che conservi particolari e magari segreti della vita di ciascuno di noi, da poter riutilizzare chissà come e quando. In buona sostanza di un grande fratello orwelliano che controlla abusivamente la vita di ciascuno.
Orbene forse alcuni rimarranno sorpresi nello scoprire che non c’è alcun bisogno di andare a scomodare Orwell o di ritenere che sistematicamente si abusi illegalmente del mezzo delle intercettazioni violando le regole fissate nel codice.
Ciò, in realtà, seppur in misura largamente diversa, avviene, ed avviene del tutto legalmente. Se proprio si vuole discutere di abuso, allora, forse dovremmo discutere di abuso del legislatore.
Infatti, non tutti sapranno che già dal 1991 (in verità anche prima, ma in quell’anno si diede alla fattispecie una disciplina più precisa), venne introdotta, nell’ambito di una serie di misure antimafia, (misure che, come noto, scatenarono la dura reazione delle cosche mafiose con le stragi di mafia di Capaci e di via D’Amelio in cui vennero brutalmente assassinati i giudici Falcone e Borsellino e gli uomini delle loro scorte), la possibilità di intercettare comunicazioni o conversazioni, sia telefoniche che ambientali, in via preventiva e quindi a prescindere dall’instaurazione di un processo penale.
Successivamente, nell’ottobre del 2001, con il d-l n. 375 convertito nella legge 438, evidentemente sull’onda degli effetti devastanti prodotti dall’attentato alle torri gemelle, detto istituto venne rimodellato e in qualche modo rafforzato, in linea con una politica di prevenzione e repressione che si andava sviluppando a livello internazionale, sia in quasi tutti gli ordinamenti giuridici europei, che, com’è forse più noto, negli Stati Uniti con il discusso patrioct act.
In sostanza, l’art. 226 delle norme di attuazione al codice di procedura penale, infatti, prevede la possibilità che, a fini di prevenzione, sia possibile porre “preventivamente” (per l’appunto) sotto controllo le conversazioni di soggetti le cui comunicazioni siano ritenute rilevanti “per l’acquisizione di notizie concernenti la prevenzione di delitti” commessi con finalità di terrorismo o di eversione (la norma richiama l’art. 407 co. 2 lett. a IV co. c.p.p.), nonché dei delitti previsti dall’art. 51 co. 3 bis c.p.p., vale a dire delitti associativi finalizzati alla riduzione in schiavitù, al traffico di sostanze stupefacenti, ovvero di associazione mafiosa o di sequestro di persona a scopo di estorsione.
La peculiarità di tale previsione consiste, come già anticipato, nel suo collocarsi totalmente al di fuori del procedimento penale. O meglio, come si dirà, nel fatto che l’utilizzo nell’ambito di un eventuale e successivo procedimento penale delle notizie assunte attraverso le intercettazioni preventive è limitato “ai soli fini investigativi”.
Si tratta, in altre parole, di intercettazioni che non vengono richieste dal p.m. – su impulso della polizia giudiziaria – ed accordate con decreto del famoso giudice “terzo”, bensì di intercettazioni richieste da organi amministrativi di polizia, quali il Ministro dell’interno, le direzioni investigative antimafia, il questore, il comandante provinciale dei carabinieri o della g.d.f. e concesse dal Procuratore della Repubblica del capoluogo (occorre precisare, sul punto, che, nel luglio del 2005, è stata estesa anche ai servizi informativi e di sicurezza la possibilità di effettuare le intercettazioni, su delega del P.C.M. e previa autorizzazione del P.G. presso la Corte d’Appello).
L’attività richiesta può consistere tanto in intercettazioni telefoniche, che telematiche o ambientali.
È previsto, inoltre, che queste ultime possano essere richieste e disposte, senza particolari necessità, anche nei luoghi di privata dimora di cui all’art. 614 c.p. (cioè nella propria abitazione o nei luoghi in cui, più in generale, si svolgono le attività quotidiane di ciascuno di noi).
Quanto alla durata delle operazioni, la norma si limita a prevedere un’autorizzazione iniziale per un massimo di quaranta giorni e la possibilità di successive indefinite proroghe, praticamente ad libitum, di venti giorni ciascuna.
Come si vede, trattasi di uno strumento investigativo certamente utile ma altrettanto invasivo, la cui “architettura” non va esente da tutta una serie di perplessità e critiche.
In primo luogo, la norma fa riferimento al solo requisito della “necessità” che è ben diverso e più labile di quello dell’indispensabilità.
Ma soprattutto, ciò che rende particolarmente insidioso questo mezzo di prevenzione dei reati è il fatto che esso si colloca al di fuori di qualunque possibilità di controllo, anche solo successivo, da parte degli interessati, che di norma non verranno mai neppure a sapere di essere stati intercettati, e ciò a prescindere dal fatto che possa insorgere un processo penale nel quale gli stessi si trovino imputati.
E si badi che, col solito schema della distinzione tra indizi di reato e indizi di reità (per la verità qui neppure richiamato, ma che solo per questo a maggior ragione pare essere senza dubbio operativo), non si tratta della possibilità di intercettare solo coloro su cui cadono eventuali ombre o sospetti, ma una cerchia ben più ampia, che potrebbe arrivare a comprendere familiari, parenti, amici e chiunque si ritenesse utile.
Esiste, per la verità, una clausola di chiusura nell’ampio disposto normativo dell’art. 226 disp. att..
Essa è costituita dal comma V, che impedisce di utilizzare i risultati delle intercettazioni preventive nell’eventuale procedimento penale successivo che da esse può originare, salvo che ciò sia a fini meramente investigativi.
Si vuole intendere, con ciò, che, sebbene in nessun atto del fascicolo del p.m possano essere richiamate le intercettazioni preventive., esse possono comunque essere l’occasione per acquisire, in primo luogo, la notitia criminis, nonché per procedere, immediatamente dopo tale acquisizione, alla fissazione della prova attraverso altri mezzi, siano essi di volta in volta un pedinamento, una perquisizione, un sequestro ovvero un’intercettazione autorizzata. 
Per altro verso, proprio l’acquisizione della notitia criminis segna lo iato di legalità tra l’intercettazione preventiva e quella (in senso proprio, stavolta) abusiva o, per meglio dire, illegale.
Una volta acquisita la notizia della commissione (o del tentativo di commissione) di un delitto, il p.m. deve necessariamente procedere con i mezzi ordinariamente previsti dal codice, vale a dire, se del caso, con le intercettazioni autorizzate.
C’è poi un altro aspetto fondamentale da mettere in luce: le norme che stiamo esaminando richiedono, come si è già detto, che le intercettazioni siano disposte solo in casi particolarmente gravi (terrorismo, eversione, sequestri, droga, malavita organizzata), ma tali previsioni scontano un inevitabile quanto evidente corto circuito logico. Parliamo infatti di reati “da prevenire”, che cioè oggi sono in una fase meramente preparatoria, embrionale. Se l’univocità degli atti fosse già stata raggiunta, ci troveremmo di fronte al tentativo di reato – e quindi alla notitia criminis e alla relativa apertura del procedimento penale.
La realtà, quindi, è che il legislatore ha creato uno spazio in cui il sospetto prevale sulle garanzie. Certo, si tratta di un sospetto di qualcosa di estremamente grave ed infatti le nostre perplessità non si appongono sull’utilità e l’opportunità politico criminale dell’istituto in parola, quanto piuttosto sul come della compressione di diritti e garanzie.
Peraltro un sospetto, per così dire, qualificante, laddove per qualificante dobbiamo intendere idoneo ad operare in astratto una qualificazione giuridica con preciso riferimento a quelle specifiche fattispecie delittuose indicate dalla norma di cui al 226 disp.att..
Non v’è chi non veda come sia quanto meno problematico poter operare una qualificazione giuridica rispetto ad elementi investigativi per loro statuto estremamente vaghi e generici.
Anche in questo caso, tuttavia, può essere comprensibile ammettere una certa approssimazione nella valutazione del sospetto e dei suoi elementi qualificanti, perché, non va dimenticato: ci troviamo il più delle volte di fronte all’esigenza di dover prevenire fatti di estrema gravità.
A maggior ragione però la vaghezza e genericità dei requisiti posti a fondamento dell’applicazione dell’istituto deve trovare un contraltare nel vaglio di un soggetto terzo rispetto all’attività investigativa.
In generale sarebbe da sciocchi, soprattutto oggi, negare la possibilità sempre e comunque, agli organi preposti alla sicurezza pubblica, di poter utilizzare il “prezioso” strumento delle intercettazioni al fine di prevenire la commissione di reati particolarmente efferati.
Non va dimenticato, infatti, che l’obiettivo è senz’altro quello di combattere ad armi pari soprattutto il fenomeno del terrorismo internazionale nonché le nuove forme di terrorismo interno e non ultimo le organizzazioni criminali di tipo mafioso.
Tuttavia, il meccanismo costruito dal legislatore del ‘92 prima, e da quello del ‘2001 poi, sfugge totalmente a qualsivoglia tipo di controllo giurisdizionale. Se ciò può apparire connaturale alle esigenze di tipo preventivo-repressivo, nondimeno appare criticabile la scelta di sottrarre la richiesta al controllo di un giudice, anziché del magistrato inquirente, che per il ruolo che ricopre sarà portato inevitabilmente ad autorizzare l’acquisizione di notizie che potrebbero rivelarsi utili alle investigazioni.
Certo, sostenere la necessità dell’intervento del giudice non significa illudersi che ciò comporti automaticamente il rispetto del diritto costituzionalmente garantito alla riservatezza dei cittadini.
Tuttavia, rinunciare a tale intervento significa abdicare a priori anche a quella veste formale minima in grado di garantire tale diritto.
E d’altra parte, la necessità che in subjecta materia il mezzo tanto invasivo venga autorizzato da un organo imparziale si fonda a maggior ragione sulla considerazione che, nel caso specifico, non solo ci troviamo al di fuori delle formalità previste dal procedimento penale, ma si agisce in uno spazio di difficile definizione, così aperto da non prevedere né la presenza di garanzia di un difensore (nemmeno a posteriori), né una prospettiva di conoscibilità dell’attività investigativa svolta.
Quindi, in ultima sostanza, uno spazio senza regole, il cui dominus incontrastato ed incontrollato è il rappresentante della pubblica accusa, una “zona franca” sulla cui compatibilità costituzionale nutriamo più di una perplessità, sia con riferimento all’art. 15 co. 2 Cost. che con riferimento all’art. 8 CEDU.
Quanto al primo dei due paradigmi appena richiamati, seppur consapevoli del fatto che una parte della dottrina costituzionalista, laddove la norma indica che la limitazione delle forme di comunicazione può avvenire soltanto per atto motivato “dell’autorità giudiziaria”, interpreti quest’ultima, nel senso di ricomprendervi anche il p.m., riteniamo tuttavia assai più ragionevole ed in linea con una lettura rispettosa del diritto alla segretezza di ogni forma di comunicazione, restringere la facoltà di autorizzare l’utilizzo delle intercettazioni al solo giudice.
D’altronde non va dimenticato come la lettura del parametro costituzionale debba essere “attualizzata” rispetto al sistema (in questo caso) processualpenalistico, il quale nel 1988 ha conosciuto una radicale trasformazione, di cui l’interpretazione del dettato costituzionale non può non tener conto.
Quanto all’art. 8 della CEDU, esso prevede, come si saprà, il diritto di ciascuno al rispetto della vita privata e delle comunicazioni. Prevede inoltre che “non può aversi interferenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tali diritti, a meno che questa sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati”. La giurisprudenza della Corte europea attorno a tali nozioni, giurisprudenza che in questa sede non è purtroppo possibile richiamare neppure sommariamente, è di grande interesse e tendenzialmente molto più garantista della legislazione dei singoli stai membri.
Solo che, probabilmente, non conosceremo mai il parere della Corte sulle c.d. intercettazioni preventive, dato che, rimanendo assolutamente segrete, temo che nessuno degli intercettati vi ricorrerà mai.
Dal complesso delle considerazioni svolte, pertanto, non può che discendere il convincimento che solo ragionando nel solco della linea qui tracciata si verrebbe ad offrire ad un organo in posizione imparziale il compito di comporre il conflitto tra le ragioni dell’autorità e quelle della libertà.
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Conclusione
L’impressione che si ricava dall’esame dell’attuale disciplina, degli arresti giurisprudenziale e, in ultima analisi, dei progetti di riforma, è che il problema dei problemi risulta rappresentato dal fatto che l’intercettazione telefonica sembra diventata nel nostro Paese una scelta ordinaria degli apparati giudiziari. L’Italia, dati alla mano, è un campione mondiale in fatto di intercettazioni a fini giudiziari (e, come abbiamo visto, non solo). Questa considerazione è infatti il “motore” di tutti i progetti di riforma, nonché dell’accennata proposta di istituzione di una commissione parlamentare d’indagine.
I dati oggettivi, gli elementi critici e le osservazioni che sono stati qui sviluppati, lasciano ritenere che per eliminare quei rischi e quei danni oggettivamente connessi all’utilizzo smodato (ecco il vero abuso!) di un mezzo quale quello delle intercettazioni, non si debba, è ovvio e scontato, impedire l’intercettazione telefonica motivata dai fattori oggettivi di difesa dello Stato dalla illegalità, ma di stabilire i limiti dell’intervento perché esso non si trasformi, come troppo spesso è avvenuto, in licenza soggettiva e perché nella sua genericità non coinvolga, con quanto è illegale, anche la legalità, che è ciò che garantisce i cittadini. Si tratta, in altre parole, di impedire che l’azione legale verso il singolo si trasformi, anche per ragioni di necessità o per errore, in azione illegale verso altri singoli.  Claudio Urciuoli
 

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